Giovanni Lo Porto, per la morte donazione Usa di 1 milione alla famiglia

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Giovanni Lo Porto, per la morte e per chiudere il caso donazione di 1 milione 185 mila euro alla famiglia. Nessuna assunzione di responsabilità. “Ci è stata offerta una cifra di un milione e 200mila dollari. A luglio i nostri legali hanno incontrato a Roma un rappresentante del governo americano che ci ha proposto questa somma, che abbiamo accettato.

Obama ha mantenuto l’impegno assunto pubblicamente quando è stata resa nota la notizia della morte di mio fratello”. Lo dice all’Ansa Daniele Lo Porto, fratello di Giovanni, il cooperante rimasto ucciso nel gennaio 2015 in un raid americano al confine tra il Pakistan e l’ Afghanistan, confermando la notizia pubblicata da La Repubblica.

La famiglia del cooperante ucciso a 37 anni, che vive a Palermo, nel popoloso quartiere di Brancaccio, non nasconde la propria amarezza per la vicenda. “Oltre il danno anche la beffa, ci è stata proposta una donazione non un risarcimento. E su quella somma abbiamo pagato pure le tasse allo Stato italiano”, puntualizza Daniele Lo Porto, aggiungendo che la famiglia “continua a chiedere verità sulla vicenda. Vogliamo sapere – sottolinea – cosa è successo”. Il pagamento, ricostruisce oggi La Repubblica, non è infatti un risarcimento, ma solo una concessione a titolo “di favore”; una donazione “ex gratia”, una formula che non comporta alcuna assunzione di responsabilità giuridica.

Giovanni Lo Porto fu rapito tre anni fa, il 19 gennaio 2012, con un collega tedesco in Pakistan, dove lavorava per la ong tedesca Welt HungerHilfe (‘Aiuto alla fame nel mondo’) impegnata nella ricostruzione dell’area messa in ginocchio dalle inondazioni del 2011. Quattro uomini armati li prelevarono con la forza nell’edificio dove lavoravano e vivevano con altri operatori a Multan, al confine tra Pakistan e Afghanistan. Il collega Bernd Muehlenbeck fu liberato il 10 ottobre. Tutto il resto della prigionia è avvolto nel mistero, inclusa l’esatta formazione che lo teneva in ostaggio. Poi nel gennaio 2015 fu stato ucciso assieme al cittadino americano Warren Weinstein; furono colpiti da un drone durante un “signature strike“, una misura militare del governo americano che consiste nel bombardare un’area sospetta, senza avere però delle informazioni certe sulla presenza dei terroristi.

Dopo la liberazione il cooperante tedesco raccontò che i rapitori avevano portato altrove già da un anno il collega italiano Giovanni Lo Porto. Chi ha lavorato con Lo Porto lo descrive come una persona molto accorta e preparata. Il suo professore alla London Metropolitan University, dove Lo Porto ha studiato, lo ha ricordato tempo fa come uno studente “appassionato, amichevole, dalla mente aperta”. “Mi disse: ‘Sono contento di essere tornato in Asia e in Pakistan. Amo la gente, la cultura e il cibo di questa parte del mondo'”, perché “il Pakistan era il suo vero amore e sentiva di aver operato bene, stabilendo dei buoni rapporti con la popolazione”.

I suoi amici di Londra organizzarono una petizione già nel dicembre del 2013 in cui chiedevano a chiunque avesse qualche influenza di adoperarsi per la sua liberazione. Iniziativa replicata il 19 gennaio del 2014, per l’anniversario del suo rapimento, con l’appello lanciato dal Forum del Terzo Settore al governo italiano e ai direttori dei giornali “per rompere il muro del silenzio”. La vicenda però si è ingarbugliata fin dall’inizio, con la rivendicazione di al Qaeda del sequestro, subito smentita. Più volte il Tehrek-e-Taliban Pakistan (TTP), principale movimento armato anti-governativo, ha negato di avere in mano Lo Porto.

Lo scorso 8 luglio davanti al notaio a Roma la transazione economica alla presenza di un diplomatico americano, il “direttore del centro di management finanziario” dell’ambasciata Usa. Oggetto del contratto: la donazione di un milione e 185 mila euro, per mettere fine al caso. Il documento bilingue probabilmente non lascia speranza di avere la verità sull’operazione dei droni statunitensi in Pakistan che all’inizio dell’anno scorso causò la morte del volontario palermitano, rapito tre anni prima dai terroristi. Barack Obama in persona chiese scusa alla famiglia, assumendosi la responsabilità dell’azione “come presidente e come comandante in capo delle forze armate “.