(di Carmelo Franco) Quello fra la settima arte e la cronaca, recente e passata, è sempre stato un rapporto prolifico e complesso al tempo stesso. Gli avvenimenti sono spunti interessanti alla narrazione cinematografica, la quale ha il compito non sempre facile di coniugare estro artistico e fedeltà, nel tentativo di non cadere in pericolose semplificazioni.
Tale rapporto diventa ancor più delicato se si analizza come la cinematografia si è accostata alla storia del giudice Giovanni Falcone, il cui ricordo è inestricabilmente legato ad una delle pagine più dolorose della nostra storia, ovvero l’eccidio di Capaci, e poi la strage di via D’Amelio in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e gli agenti di scorta.
Proprio in virtù del carico doloroso creato da tali eventi, che hanno definitivamente consegnato alla memoria collettiva la figura di Giovanni Falcone, risulta interessante analizzare la relazione che è intercorsa tra il cinema ed il giudice, nelle opere a lui direttamente dedicate, ovvero in quelle in cui la sua presenza è parte essenziale di altre storie narrate o dei personaggi tratteggiati, anche attraverso gli attori che lo hanno interpretato, molti dei quali, al di là di una sterile riproduzione mimetica, ne hanno saputo far rivivere la malinconia, il rigore, l’ironia e la grande umanità che lo caratterizzavano.
E’ quella di Falcone una figura a cui è complesso approcciarsi, per le intricate vicende che hanno scandito la sua vita di magistrato, e per il suo fondamentale lascito professionale alle generazioni future. La sua storia, quindi, si fonde agli avvenimenti di cui è stato partecipe in un tutt’uno difficile da districare.
Eppure, il cinema, ancor prima delle stragi mafiose, ha dimostrato un vivo interesse nell’affrontare tale sfida, attraverso cineasti che si sono avvicinati al personaggio con cifre stilistiche e sensibilità diverse.
Questo excursus non può che iniziare con un prodotto di genere, Il pentito di Pasquale Squitieri, uscito nelle sale nel 1985. L’anno successivo sarebbe iniziato il maxiprocesso a cosa nostra, istruito, pensato e voluto da Giovanni Falcone e dal suo spirito affine, il giudice Istruttore Paolo Borsellino. Già si era capita l’importanza storica che avrebbe avuto questo primo grande processo alla mafia siciliana. I media, nazionali ed internazionali, avrebbero dedicato grande spazio all’evento che si sarebbe celebrato all’aula bunker dell’Ucciardone e Tommaso Buscetta sarebbe stato l’altra star del proscenio, avendo riempito pagine e pagine, con le sue dichiarazioni rese direttamente a Falcone, che facevano tremare i boss alla sbarra. Ecco allora che il napoletano Squitieri, già autore di altre pellicole sulla storia criminale nostrana (il Prefetto di Ferro 77 incentrato sulla figura del Prefetto Mori e Corleone 78, che richiama la storia del boss corleonese Luciano Liggio), non si fa sfuggire l’occasione e, in anticipo sui tempi, narra le gesta del Giudice Falco, intrepretato da un Franco Nero in parte, nome di fantasia, ma la cui assonanza con il Giudice palermitano è fin troppo evidente, anche nel look (per l’occasione l’interprete porta la barba, come allora il Giudice Falcone), così come è chiaro il riferimento alle vicende reali rappresentate, nel portare in scena la storia di un pentito di mafia (interpretato da Tony Musante), che ricorda da vicino Tommaso Buscetta, il quale collabora con la giustizia e consente al magistrato che lo interroga, il Giudice Falco appunto, di districarsi negli intricati intrecci criminali, che riguardano anche un banchiere (Sindona), l’uccisione di un giudice con un autobomba (Rocco Chinnici), l’assassinio di un Commissario di Polizia (Boris Giuliano), un avvocato milanese (Giorgio Ambrosoli) ed un boss mafioso (Totò Riina).
In quegli anni, gli eventi che hanno caratterizzato la vita professionale di Falcone, invero sempre sotto i riflettori dei media, coincidono con un pezzo importante di storia del nostro paese: i mafiosi ed i professionisti dell’antimafia, le collusioni criminali, la difficile gestione dei primi pentiti in assenza di una legislazione in materia, gli omicidi eccellenti, la stagione dei veleni al Palazzo di Giustizia di Palermo, l’opera di delegittimazione da parte dei suoi antagonisti e dei finti amici che dovevano essere al suo fianco ed invece ne hanno ostacolano la carriera, infine, il coraggio e la solitudine di un uomo che combatte contro un nemico che sembra inarrestabile.
Ed allora, i copioni dei registi, dei soggettisti e degli sceneggiatori che, negli anni a venire al 23 maggio 1992, scriveranno i plot dei film a lui dedicati, troveranno fonte di ispirazione in una vita ricca di eventi, senza parti noiose, e ciascuno di essi li declinerà secondo il proprio stile e tratto autoriale.
E ciò, fin dal film che Giuseppe Ferrara dirige appena un anno dopo la strage di Capaci, dal titolo Giovanni Falcone (93), a cui presta il volto Michele Placido, che si cala nel ruolo del protagonista con estrema cura dei dettagli. Il regista toscano, sempre attento alla cronaca con i suoi lavori, replica l’operazione compiuta dopo l’uccisione di Carlo Alberto Dalla Chiesa, che lo aveva ispirato nel girare Cento giorni a Palermo (84) ma, come allora, il breve tempo trascorso dall’eccidio mafioso influisce nella riuscita della pellicola, più un instant movie, che con stile cronachistico ripercorre gli ultimi dieci anni della vita professionale del giudice e si conclude con la strage di via d’Amelio, in cui perde la vita il suo collega e amico Paolo Borsellino, interpretato da Giancarlo Giannini. Tuttavia, il lavoro di Ferrara si fa apprezzare per l’inserimento quasi onirico, che pervade l’intero film, costituito dalla partita a scacchi fra la morte ed il cavaliere del film di Ingmar Bergman, Il settimo sigillo, che sembra ossessionare il Giudice e che fa da contraltare agli inserti di materiale di repertorio tratti dai telegiornali dell’epoca.
Alla fine del passato millennio, esce in sala I giudici – excellent cadavers (99), una coproduzione fra l’Italia e gli Stati Uniti (finanziato dalla tv americana HBO), diretta da Richy Tognazzi e tratta dal romanzo Nella terra degli infedeli di Alexander Stille. Il lavoro del regista figlio d’arte, in cui il Giovanni Falcone è interpretato per la prima volta da un attore americano, ma di origini italiane, e cioè da Chazz Palmintieri, in verità, anche per la sua mole ingombrante, poco adatto al ruolo (Paolo Borsellino raffigurato da un efficace Andy Luotto, mentre a Buscetta presta il volto F. Abram Murray), ripercorre la storia dei due Magistrati, fino al tragico epilogo.
La pellicola viene pensata e realizzata per il mercato televisivo americano e, quindi, nella migliore tradizione del cinema di Hollywood, grande spazio viene dato al versante privato di Giovanni Falcone, vengono enfatizzate le scene d’azione, semplificati gli snodi narrativi riguardanti la carriera professionale dei due magistrati e questo ne ha condizionato l’apprezzamento da parte del pubblico, sia italiano (troppe le licenze che il regista si è concesso nel narrare una storia che a noi appartiene), ma anche americano, dato l’incedere incerto fra il registro spettacolare e il rigore ad una storia già scritta.
Negli anni a venire, il cinema italiano sembra disinteressarsi alla figura di Giovanni Falcone (così come a quella di Paolo Borsellino), ci si accosta ad altre realtà criminali (Romanzo Criminale e Vallanzasca, gli angeli del male di Michele Placido, Gomorra di Matteo Garrone, Suburra di Stefano Sollima) e per non dimenticare i due Magistrati palermitani ci penserà la fiction tv, attraverso la miniserie Giovanni Falcone, L’uomo che sfidò l’organizzazione (06), dei fratelli Frazzi, il cui ruolo di protagonista viene affidato a Massimo Dapporto, ed a una miniserie dedicata all’amico e collega, Paolo Borsellino (04) di Gianluca Maria Tavarelli in cui Falcone viene interpretato da Ennio Fantastichini e Borsellino da Giorgio Tirabassi (uscirà anche Paolo Borsellino i 57 giorni di Albero Negrin, sui giorni trascorsi dal Giudice, fra i due eccidi, alla ricerca di una verità mai trovata, in cui la figura di Falcone aleggia sullo sfondo). Di grande successo la fiction tv Il capo dei capi (07), diretta da Enzo Monteleone ed Alexis Sweet e tratto dal romanzo omonimo di Attilio Bozzoni e Giuseppe D’Avanzo, che ripercorre la vita e le gesta criminali di Totò Riina, ed in cui appare (immancabilmente) il personaggio di Falcone (interpretato anonimamente da Andrea Tidona), così anche di Paolo Borsellino, quali figure ancillari, dapprima indagatori e poi vittime del boss corleonese, come la storia ci ha insegnato.
Ad uscire da questo torpore ci penserà Fiorella Infascelli, che trova una chiave di lettura diversa nella narrazione, scandagliando i momenti professionali che hanno caratterizzato la storia dei due giudici, con Era d’estate (16). Nell’estate del 1985, Falcone e Borsellino, con le loro rispettive famiglie, vengono trasferiti, in gran segreto, nell’isola dell’Asinara, durante le indagini che stanno portando avanti, istruendo il maxiprocesso perché si teme per la loro incolumità. La regista racconta proprio questa vicenda, concentrandosi sullo sbandamento vissuto dai rispettivi contesti familiari, sul loro timore di essere diventati bersaglio dell’organizzazione mafiosa, sull’interazione fra essi e sulla tenacia ed il coraggio dei due magistrati che continueranno a lavorare per non arrestare l’attività inquirente che avrebbe condotto alla sbarra boss e gregari della mafia siciliana. Nel film, il ruolo di Falcone viene affidato ad un convincente Massimo Popolizio, mentre è Beppe Fiorello a vestire i panni del collega Borsellino.
Tutto ciò finché, nel 2019, colui che era stato una irrinunciabile figura secondaria nella rappresentazione cinematografica di Giovanni Falcone, e cioè Tommaso Buscetta, il boss che decise di collaborare con la giustizia, a condizione che fosse il Giudice Istruttore Falcone a raccogliere le sue dichiarazioni, diviene personaggio principale del film di Marco Bellocchio, Il Traditore, interpretato da Pierfrancesco Favino. Nel pluripremiato lavoro del regista de I pugni in tasca, i ruoli quindi si invertono, e Giovanni Falcone, interpretato da un poco convincente Fausto Russo Alesi, anche lui di origini palermitane, nelle scene a lui dedicate, dimostra di comprendere il suo interlocutore privilegiato, creando con lui un’empatia professionale, che gli consentirà di istruire il processo del secolo, il cui esito ne determinerà anche la condanna a morte.
In questo gioco cinefilo, un accenno merita il docufilm La mafia non è più quella di una volta (2019), con il quale il regista palermitano Franco Maresco, nel venticinquesimo anniversario delle stragi di Capaci e via D’Amelio, analizza quale è l’eredità che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino hanno lasciato al nostro paese, indagando il rapporto fra la gente comune e la mafia, attraverso una conversazione con la fotografa Letizia Battaglia, in un lavoro popolato anche dai suoi soliti personaggi sopra le righe.
Ad oggi tutto qui, in attesa che qualcosa di nuovo (o di antico?) torni ad ispirare i cineasti, e chissà che ciò non sia già avvenuto con il nuovo romanzo che Roberto Saviano ha dedicato a Giovanni Falcone, dal titolo Solo è il coraggio. Giovanni Falcone, un libro denso di avvenimenti e personaggi, che può costituire una nuova occasione letteraria da cui trarne un’altra rappresentazione cinematografica.