Nessuna verità dalla sentenza di primo grado del processo sulla trattativa tra Stato e mafia. L’epilogo processuale salutato da molti con grande enfasi lascia troppi dubbi e lascia intravedere tante contraddizioni. Ieri è stato non un politico chiacchierato, ma un fine giurista come Giovanni Fiandaca a smontare il processo.
Oggi il dibattito si è concentrato sul presunto ruolo di Silvio Berlusconi. Ruolo rimarcato dal pm Nino Di Matteo e prontamente e diligentemente rilanciato dal Movimento Cinquestelle. Per il magistrato palermitano , intervistato da Lucia Annunziata su Rai 3, “la sentenza è precisa e ritiene che Dell’Utri abbia fatto da cinghia di trasmissione nella minaccia mafiosa al governo anche nel periodo successivo all’avvento alla presidenza del Consiglio di Berlusconi”.
Per Di Matteo, quindi, “questo verdetto sposta in avanti il ruolo di tramite esercitato da Dell’Utri tra cosa nostra e Berlusconi” estendendolo almeno fino al primo governo di centrodestra nato dalla vittoria del ’94.
Certo, resta a difficilmente spiegabile con quale autorità e autorevolezza politico-istituzionale Silvio Berlusconi, che all’epoca dell’inizio della trattativa tra Stato e mafia faceva ancora soltanto l’imprenditore, abbia potuto garantire qualcosa ai boss. Così come perplessi lascia il fatto che i vertici dei carabinieri condannati, secondo i giudici, avrebbero agito su input politico non si sa di chi. In buona sostanza c’è un salto logico nella tesi processuale.
I Ros hanno avviato nel ’92 una trattativa tra padrini e Stato. Chi rappresentava i boss lo sappiamo, don Vito Ciancimino, lo Stato, invece, avrebbe avviato i contatti e si sarebbe fatto rappresentare non con i suoi esponenti di allora, ma con quelli futuribili, cioè quelli che fino a quel momento non esistevano sul piano istituzionale e che sarebbero diventati soggetti politici due anni dopo. Singolare spiegazione, eppure questo aspetto non sembra interessare i sostenitori della tesi accusatoria.
Dal canto suo Silvio Berlusconi si è difeso con una intervista sul Corriere della Sera nella quale ha contestato la condanna di “servitori dello Stato” come Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno.
Poi il riferimento al suo ipotetico coinvolgimento nella vicenda. “Il solo fatto di associare il mio nome o l’attività del mio governo a questa sentenza è un comportamento irresponsabile, oltre che lontanissimo dalla verità storica e giudiziaria, messo in atto da un pubblico ministero molto vicino ai grillini – ha attaccato l’ex cavaliere -. Non soltanto l’intero operato dei miei governi è stato di fortissimo contrasto legislativo e operativo alla criminalità mafiosa, ne ha dato atto fra gli altri Pietro Grasso, allora procuratore nazionale antimafia, che disse che avremmo meritato un premio per tutto quello che abbiamo fatto, ma se per assurda ipotesi la sentenza fosse corretta, io sarei parte lesa dei reati che vengono contestati. Mi auguro che di fronte a tali assurdità l’opinione pubblica e le stesse forze politiche reagiscano con la nostra stessa indignazione”.
La sentenza di ieri lascia il retrogusto di una tesi nella quale il giudizio politico e la voglia di assecondare l’emotività popolare abbiano, alla fine, prevalso sulla verità dei fatti.