“Per la giustizia ci sono voluti 25 anni per affermare con una sentenza pronunciata in nome del popolo italiano quello che era accaduto ma mi chiedo, con una certa amarezza, se quanto oggi consacrato in una sentenza dei giudici non era conosciuto ben prima da soggetti, ambienti della politica e delle istituzioni che, invece di denunciare quello che era accaduto o quello che stava allora accadendo, hanno preferito tacere, hanno preferito nascondere, hanno addirittura preferito cercare di cancellare le prove di quel terribile connubio”.
Lo dice all’Agi il sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia, Nino Di Matteo, che e’ stato pm al processo di Palermo sulla trattativa Stato-mafia. “Ci siamo scontrati – afferma il magistrato, che sulla trattativa ha scritto un libro assieme al giornalista Saverio Lodato – con una diffusa omertà istituzionale e con una resistenza anche delle parti sane del Paese che pensavano fosse inopportuno che lo Stato processasse se stesso. Pensavano fosse inopportuno screditare con un’accusa così pesante settori dello Stato come l’Arma dei Carabinieri, settori dei servizi segreti e uomini politici. Ma noi ci siamo resi conto subito che, ovviamente, il nostro era un processo a singoli appartenenti a quei corpi, a quei settori, a quei partiti politici e non voleva criminalizzare nessun ambiente. Siamo andati avanti seguendo un principio: uno Stato che ha paura di far venire fuori e far emergere anche responsabilità dei propri esponenti rispetto fatti cosi’ gravi e’ uno Stato che non puo’ essere autorevole”.
Dopo la sentenza di Palermo, secondo Di Matteo, “il tema è stato rimosso e questo Paese non può diventare un Paese senza memoria. Perché un Paese senza memoria, ne sono convinto da cittadino prima ancora che da magistrato, è un Paese senza futuro e senza coscienza dell’importanza e della memoria”. Dal processo di Palermo, sostiene Di Matteo, è emerso non solo che “la trattativa ci fu e il dialogo con i vertici di Cosa Nostra venne iniziato e venne cercato da esponenti dello Stato” ma anche che questo “non evitò altro sangue, anzi provoco’ un ulteriore inasprimento della linea stragista”, perché il boss Toto’ Riina “si convinse che quello era il momento per fare altre stragi, per buttare sul piatto della bilancia della trattativa la violenza di altro sangue”.
Di Matteo crede “assolutamente plausibile” che la trattativa abbia “giocato sull’accelerazione improvvisa dell’intenzione di uccidere il dottor Borsellino”. L’ipotesi di Di Matteo è che Borsellino “probabilmente aveva, se non saputo, cominciato ad intuire qualcosa sull’esistenza della trattativa” e che “qualcuno avesse da temere che avesse annotato quei suoi sospetti nell’agenda rossa che portava sempre con sè”.
L’agenda scomparsa il giorno della strage di via D’Amelio e mai più ritrovata: “Possiamo affermare secondo un criterio di buon senso e logica ed esperienze di chi da molti anni si occupa di processi di mafia -commenta Di Matteo – che l’agenda rossa non può essere stata fatta sparire dai mafiosi che hanno partecipato alla strage ma con ogni probabilità da uomini di uno Stato deviato che già in quel momento ha voluto nascondere elementi importanti per la ricostruzione del movente dell’uccisione del giudice e degli agenti della scorta”. (AGI)