Ecco chi sono gli incursori della Task Force 44, professionisti che in Iraq affrontano il terrore islamista

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task force 44

Prima dell’attentato di Kirkuk  soltanto gli addetti ai lavori sapevano cosa fosse la “Task Force 44”. Di unità simili si ha notizia solo se qualcosa va storto altrimenti i suoi componenti sono invisibili come fantasmi, persino sul web.

Inserita nel dispositivo militare della missione “Prima Parthica”, in Iraq dal 2014 con più di ottocento uomini dispiegati tra il Kuwait, Baghdad ed Erbil, l’unità è composta da un numero variabile tra i cinquanta e gli ottanta operatori delle forze speciali.

Così come nel caso della gemella “Task Force 45” attiva in Afghanistan fino al 2015, l’ossatura è composta da incursori provenienti dai due reparti italiani più antichi e prestigiosi: il 9° reggimento  d’assalto paracadutisti “Col Moschin”, erede degli arditi della prima guerra mondiale (foto a sinistra) e il Goi, il Gruppo operativo incursori della Marina, continuatori delle gesta degli uomini Gamma che violarono i porti britannici di Alessandria, Malta e Gibilterra durante la seconda guerra mondiale.

Sono uomini super addestrati (foto sotto) che devono superare circa tre anni di prove per ottenere il brevetto di incursore che consente loro di essere impiegati in situazioni estreme, in qualsiasi contesto e ambiente. Sono coordinati, insieme ai colleghi del 17° Stormo dell’Aeronautica e ai carabinieri del Gis (Gruppo di intervento speciale), dal COFS (Comando interforze per le operazioni speciali) dipendente dallo Stato Maggiore della Difesa. Sono l’arma strategica per eccellenza, da utilizzare in missioni all’estero e l’ultima ratio quando nessun altro assetto militare può risolvere una situazione critica.

Gli operatori italiani, infatti, combattono da anni nel Kurdistan irakeno una guerra silenziosa a fianco dei Peshmerga e delle truppe di Baghdad, così come avevano fatto contro i talebani nei deserti dell’Afghanistan. Ufficialmente sono lì per una missione di mentoring cioè addestramento dei militari indigeni. Ma in un contesto ad alto rischio, per insegnare come muoversi sul terreno, Individuare obiettivi e guidare si di essi un attacco aereo, scovare e disinnescare esplosivi, reagire ad una imboscata, liberare ostaggi o curare un ferito in battaglia, non basta il powerpoint in un’aula didattica. Per questo oltre al semplice training all’interno della base, bisogna ricorrere al mentoring che implica qualcosa in più delle semplici esercitazioni.

Il “mentorizzatore” accompagna gli allievi sul campo, in azione, li guida, li consiglia, li assiste e in caso di necessità gli fa vedere “come si fa”. Un modo diplomatico per dire che le nostre forze speciali hanno più di una volta portato a termine con successo missioni “combat” contro i miliziani di fondamentalisti insieme agli alleati. Come nel 2017, durante l’offensiva di Mosul.

In quel caso gli incursori italiani entrarono in azione nell’area di Hawaija contribuendo a stanare i tagliagole dell’Isis e a liberare l’antica città irakena. Andò tutto bene e per alcuni di loro ci furono anche delle decorazioni, in cerimonie militari riservate e lontane dai riflettori della stampa.

Il drammatico attentato di Kirkuk ha riaperto la polemica sull’opportunità delle missioni all’estero. L’impiego della “Task Force 44” non è soltanto un contributo fondamentale per la formazione delle forze armate curde e irakene, è soprattutto la prima linea di difesa contro il terrorismo fondamentalista. I professionisti delle nostre forze speciali, che ricordiamo ancora, sono tra gli operatori più addestrati ed efficienti del mondo, hanno anche un compito da 007 e insieme all’intelligence italiana e alleata, combattono ogni giorno contro i resti di Daesh incalzandoli sul loro terreno e raccogliendo una marea di importanti informazioni. Un impegno indispensabile per impedire al terrore fondamentalista di colpire nelle nostre città. (Foto d’archivio)