La sentenza Mannino è uno tsunami che si abbatte sul teorema della trattativa tra Stato e mafia

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La sentenza Mannino è uno tsunami che si abbatte sulla tesi giudiziaria della trattativa tra Stato e mafia. Le 1149 pagine scritte per spiegare le motivazioni con i quali i giudici della Corte d’appello di Palermo, Adriana Piras, Massimo Corleo e Maria Elena Gamberini hanno assolto l’ex ministro Dc dall’accusa di “violenza o minaccia ad un corpo politico o istituzionale dello Stato” ribaltano molte delle teorie date per verità incontrovertibile.

Vito Ciancimino non è mai piaciutoLa storia del pactum sceleris tra Cosa Nostra e lo Stato, stretto grazie al ruolo dell’ex capo del Ros Mario Mori e del capitano Giuseppe De Donno che avrebbero incontrato nei primi anni ‘90 don Vito Ciancimino per avviare una inconfessabile trattativa, non ha retto alla prova dei fatti ricostruiti dai magistrati. Il teorema innescato, tra gli altri, dall’ex pm Antonino Ingroia, portato avanti con grande impegno dal pm Nino Di Matteo e raccontato come si trattasse di una nuova edizione delle Tavole della Legge da Saviano, Travaglio e compagni, si è schiantato, ma non contro chissà quale agenzia di disinformazione, si è sfracellato contro la meticolosità di altri magistrati che hanno confutato punto per punto le tesi dell’accusa.

Il teorema metteva insieme un po’ di tutto. Cosa Nostra, Berlusconi e dell’Utri ispiratori delle stragi insieme ai boss per consacrare nel terrore la loro scalata al potere, i servizi deviati, i carabinieri infedeli, i ministri pavidi o conniventi. Materiale scottante e certamente suggestivo, preziosissimo per tessere una trama tanto oscura da consegnare alla eterna damnatio memoriae alcune delle figure di maggior valore del Raggruppamento operativo speciale dell’Arma e per delegittimare alla radice vent’anni di successi elettorali e di governo del centrodestra in Italia e in Sicilia.

Vediamo, punto per punto, come la sentenza Mannino smonta il teorema della trattativa e la tesi che Falcone e Borsellino siano stati eliminati perché un ostacolo all’accordo con le “coppole storte”. Secondo i giudici della Corte d’Appello l’ex ministro democristiano non era finito “nel mirino della mafia a causa di sue presunte ed indimostrate promesse non mantenute”. Al contrario era “una vittima designata della mafia, proprio a causa della sua specifica azione di contrasto a ‘cosa nostra’ quale esponente del governo del 1991″. Come si ricorderà, Mannino era stato accusato di avere convinto i carabinieri di Mori ad avviare l’interlocuzione con Ciancimino perché terrorizzato dalle minacce mafiose. Tesi che non ha convinto i giudici che hanno bollato come “infondate, illogiche e incongruenti” le accuse. Si legge nelle motivazioni della sentenza: “Se davvero, come da contestazione, l’imputato fosse stato così vicino a Cosa Nostra da essere un suo stabile interlocutore politico, costui non avrebbe di certo avuto bisogno, per proporle un patto per sé salvifico, né dei militari del Ros né del suo acerrimo nemico politico, Vito Ciancimino, ben potendo presentarsi egli stesso ai vertici del sodalizio come prestigioso mediatore (all’epoca era ancora Ministro) per sé stesso e per lo Stato italiano”. E in effetti il ragionamento fila.

Adesso entriamo nel vivo dell’argomento, la trattativa tra Stato e mafia. “Tutte le fonti, sia quelle dirette (il generale Mori e il colonnello De Donno) sentite in epoca per loro non sospetta come testimoni di una vicenda ancora lontana dal partorire le indagini a loro carico, sia quelle indirette e provenienti, peraltro, da personalità istituzionali di pacifica onestà e integrità morale – scrivono i giudici – sono risultate convergenti nel descrivere l’iniziativa assunta dal Ros come un’operazione investigativa di polizia giudiziaria”. Quindi non si trattò della ricerca di un accordo sottobanco con i boss, ma di “un’operazione investigativa”, mette nero su bianco la Corte d’appello di Palermo. E allora gli incontri e i colloqui tra i carabinieri e Vito Ciancimino non sono da considerare come un tassello di una trattativa, poiché quell’iniziativa fu “comunicata al loro diretto superiore gerarchico, che allora era il generale Subranni e fu realizzata attraverso la promessa di benefici personali (il passaporto, i propri beni, etc.) a Ciancimino, per mantenere la quale era stata chiesta quella ‘copertura politica intesa in tale esclusivo senso – cioè l’assecondare, ove possibile, le richieste nell’interesse del Ciancimino, prossimo alla carcerazione – così come pacificamente inteso dalla Ferraro, da Martelli e dallo stesso Violante, con la sollecitazione di un’attività di infiltrazione in Cosa Nostra di Ciancimino, che ne avrebbe dovuto contattare i capi, tanto al fine della cattura di Totò Riina, interrompendo, così, la stagione delle stragi” – si legge nelle motivazioni della sentenza.

paolo borsellinoLa parte più delicata e il colpo più duro al teorema della trattativa i magistrati di Palermo lo danno parlando del giudice Paolo Borsellino e dei suoi rapporti con gli ufficiali dei carabinieri. In appello arriva una ricostruzione che smentisce e sovverte quella fornita dai pm in Corte d’assise.“Appare altamente probabile – è scritto nella sentenza – che gli alti ufficiali del Ros avessero informato della loro iniziativa anche il giudice Borsellino, che con Mori e De Donno aveva all’epoca un rapporto di assoluta ed esclusiva fiducia, tanto da chiedere di vederli, riservatamente, nei locali della caserma dei carabinieri e non in quelli della Procura, per parlare del rapporto ‘mafia – appalti’ nel luglio 1992, poco prima della sua uccisione”. Secondo i giudici della Corte d’appello Paolo Borsellino era perfettamente a conoscenza e consapevole del dialogo avviato da Mori e De Donno perché erano stati gli stessi militari a comunicarglielo.

“Quando il giudice ne era stato informato dalla dottoressa Ferraro non ne era rimasto affatto stupito, né contrariato – scrivono i magistrati – rispondendo alla dirigente degli Affari Penali del Ministero che andava bene e che se ne sarebbe occupato lui. Se, dunque, si trattava di iniziativa discussa dagli alti ufficiali del Ros col giudice o, comunque, prossima all’asseverazione di Borsellino che già ne aveva preso atto, senza stupirsene, a fine giugno 1992 parlando con la Ferraro, l’ipotesi che l’operato di Mori e De Donno celasse l’istigazione del Mannino per avere salva la vita, diventa una remota illazione, priva di qualsivoglia giustificazione logica, in tale ricostruito contesto”.

I giudici della Corte d’appello proseguono scrivendo nelle motivazioni della sentenza che Borsellino non era “affatto stupito e men che mai scandalizzato”. Tale reazione legittima, fondatamente, la conclusione di questa Corte che non solo Borsellino fosse già stato informato dell’iniziativa intrapresa dagli stessi ufficiali già prima che gliene parlasse la Ferraro, ma che il magistrato non l’avesse valutata come un’operazione anomala, con particolari finalità o istigazioni ad opera di personalità politiche occulte, bensì come una normale attività del Ros di infiltrazione sotto copertura, finalizzata alla cattura dei boss di ‘cosa nostra’ che in quel momento portavano avanti la strategia stragista”. Esattamente il contrario da quanto sostenuto dalla Corte d’assise, secondo la quale l’apertura del dialogo tra i Ros e Ciancimino avrebbe accelerato l’omicidio Borsellino, contrario alla trattativa con l’ex sindaco di Palermo. Così come smentite sono le ricostruzioni che indicano nell’omicidio Lima nelle stragi dei “segnali” per indurre lo Stato a trattare.

Insomma sulle vicende di cronaca nera che hanno funestato il periodo a cavallo tra la prima e la seconda Repubblica si sono riversati fiumi di inchiostro e celebrati decine di processi. Circuiti culturali e giornalistici hanno accettato acriticamente e utilizzato i fatti più tragici di quegli anni per costruire miti e demolire personaggi scomodi, Mori su tutti, ma è ancora tutta da scrivere la storia dei presunti rapporti tra pezzi importanti del centrodestra ed esponenti mafiosi. Ancora una volta però, sulle stragi in Italia, a Palermo come a Milano, lo sguardo pensieroso si perde lontano, magari fuori dai confini nazionali…