(di Gaetano Armao*) Il regionalismo differenziato previsto dall’articolo 116, terzo comma della Costituzione, sul quale premono la Lega e le Regioni del Nord, non danneggerà la Sicilia se contestualmente troveranno riconoscimento, così come ha richiesto il Governo regionale, le previsioni dello Statuto e la contemporanea attivazione degli strumenti di perequazione fiscale ed infrastrutturale previsti dalla stessa Costituzione e dai Trattati UE, nonché dalla disciplina sul federalismo fiscale. La Sicilia lo sostiene da mesi al tavolo della Conferenza delle Regioni.
È di qualche giorno fa l’intervento di Sabino Cassese sul Corriere della Sera che stigmatizza non solo la portata effettiva delle iniziative di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna: l’obiettivo di trattenere risorse nelle regioni più ricche, ma anche di come tali iniziative possano determinare la riapertura della “ferita storica del Paese, la mancata unificazione economica a centocinquanta anni di distanza dalla unificazione politica”. Si tratta, in via di principio, di valutazioni del tutto condivisibili poiché orientate a contestare una domanda di autonomia che rischia di perdere di vista le ragioni profonde dell’autogoverno, ma sopratutto quelle imprescindibili, anche negli ordinamenti federali, di coesione e perequazione, sopratutto in un Paese da troppo tempo e sempre più diviso sul piano economico e sociale.
Anzi, in presenza di meccanismi che aggravano il divario come la tendenziale paralisi delle misure perequazione infrastrutturale e fiscale, la soglia di investimenti al Sud del 34% sul complesso di quelli approntati e che viene calcolata sulla mera percentuale di popolazione meridionale (l. n. 18/2017), a prescindere dall’esigenza di recuperare il divario (e quindi sostanzialmente cristallizzandolo) o vicende come il prelievo forzoso concentrato sulle sole province siciliane (277 mil. € annui), che le sta conducendo al default con gravissimi effetti sui cittadini, svolgono una funzione di sostanziale destrutturazione della solidarietà nazionale.
Lo scenario che descrivono i principali centri di ricerca da Svimez e Fondazione Curella-Diste, a Confindustria, dalla Confcommercio a Confartigianato, solo per riferirsi ai più recenti, evidenziano l’aggravamento, sopratutto qualitativo, del divario tra il Nord ed il Sud del Paese. Una cesura che trascende ormai la quantificazione economico-sociale e che sta consolidando gli aspetti ormai strutturali di un Paese diviso (emigrazione intellettuale, marginalizzazione dell’istruzione e della formazione, isolamento culturale, desertificazione imprenditoriale, invecchiamento, spopolamento, in particolare delle aree interne, accentuazione del dissesto idrogeologico, rarefazione e dequalificazione dei trasporti etc.). È questo avviene nonostante i modestissimi segnali di crescita che il Sud pur registra, ma che rinviano al 2027 la possibilità di completare il pieno recupero di quanto perduto durante la crisi 2007-12.
La Banca d’Italia nell’ultimo Rapporto sull’economia delle regioni italiane nel 2017 evidenzia che il PIL nel Sud, lo scorso anno, era inferiore di circa il 9% rispetto al periodo pre-crisi; la contrazione era oltre due volte quella del Centro Nord. In termini pro capite, la differenza tra gli andamenti delle due aree è più contenuta (rispettivamente, circa -10% e -8%), ma per effetto delle migrazioni interne e internazionali che hanno portato a una maggiore espansione della popolazione nelle regioni del Centro Nord. I flussi migratori dal Mezzogiorno coinvolgono in misura crescente individui laureati, impoverendo così la dotazione di capitale umano e le prospettive future di sviluppo dell’area.
Svimez nel Rapporto 2018 ha evidenziato che nel contesto di un preoccupante ampliamento della forbice dei divari Nord-Sud si rileva “il vero e proprio crollo degli investimenti pubblici”. Ciò in quanto nell’ormai dinamica della spesa in conto capitale, il 2016 ha già fatto toccare il punto più basso della serie storica per l’Italia e per il Mezzogiorno, nel 2017 la spesa in conto capitale declina ancora.
Si tratta del sostanziale dimezzamento dei livelli pre crisi per l’intero Paese, “ma per il Mezzogiorno, si tratta di più che un dimezzamento: se si considera un periodo più lungo, si passa da una quota di spesa in conto capitale nell’area che ancora nel 2002 valeva l’1,6% del PIL nazionale, a una spesa che vale appena lo 0,7%. Il modesto incremento del 2015 non ha interrotto un trend negativo che sembra inarrestabile”. Ma il dato più rilevante – precisa il rapporto Svimez – “è la spesa ordinaria in conto capitale che rappresenta un buco nero per lo sviluppo del Mezzogiorno, confermandosi su livelli del tutto insufficienti, sostanzialmente dimezzati rispetto a quelli pre crisi, e ben lontani da quei principi di “riequilibrio territoriale” sanciti nel 2017 attraverso la previsione della c.d. “clausola del 34%”.
Questo dimostra che il limite minimo del 34%, il quale invero, non determina in termini sufficienti la perequazione infrastrutturale, ma difende solo il diritto alla sopravvivenza del Sud, é disatteso. In particolare, mentre l’FSC é praticamente fermo, il modello “Patti per il Sud” mostra gravi criticità.
La Relazione annuale del Sistema dei Conti pubblici Territoriali 2018[1], sul punto ha effettuato una simulazione per verificare gli effetti in termini di spesa pubblica che si genererebbero col raggiungimento dell’obiettivo, prescindendo dalle limitazioni imposte dalle norme attuative, e simulando a ritroso quale sarebbe stato l’impatto della norma nell’ipotesi che tutte le Amministrazioni Centrali si fossero conformate – nel periodo 2000-2015 – alla normativa, portando la propria spesa ordinaria complessiva ad un livello pari a quello della popolazione.
La simulazione evidenzia che per il Sud la quota di risorse ordinarie reali delle Amministrazioni Centrali è “stata pari mediamente al 28,9 per cento, con una riduzione a circa il 28,4 per cento nell’ultimo triennio considerato, al di sotto della rispettiva quota di popolazione – pari mediamente al 34,4 per cento. Al contrario, nel Centro-Nord la quota delle spese ordinarie risulta pari al 71,6 per cento, quindi di 6 punti percentuali superiore alla popolazione dell’area, che nel medesimo periodo risulta pari al 65,6 per cento”.
Il Report Sud della Fondazione Curella di Palermo ha sottolineato, in termini prospettici quanto flebili siano i margini di crescita per il Mezzogiorno e la Sicilia. Alcuni dati: la debolezza della crescita va ricondotta alla coincidente frenata dei consumi delle famiglie e degli investimenti fissi aziendali, in assenza di aumenti della spesa in conto capitale del settore pubblico destinata all’ammodernamento delle infrastrutture e cosi il PIL del Sud dovrebbe crescere dello 0,7% (il tasso più basso del periodo 2015/2019).
Come dimostrano i dati dei Conti pubblici territoriali presentati dall’Assessorato all’economia due assunti fondamentali, utilizzati da alcuni per sostenere il regionalismo differenziato e contrastare la spesa per la coesione, debbono ormai considerarsi poco più che luoghi comuni.
Il primo sul concetto di “residuo fiscale”, nella definizione di J. Buchanan, quale differenza tra il contributo che ciascun individuo fornisce al finanziamento dell’azione pubblica e i benefici che ne riceve sotto forma di servizi pubblici.
Sulla questione la Corte costituzionale ha precisato che “fermo restando che l’assoluto equilibrio tra prelievo fiscale ed impiego di quest’ultimo sul territorio di provenienza non è principio espresso dalla disposizione costituzionale invocata, il criterio del residuo fiscale …non è parametro normativo riconducibile all’art. 119 Cost., bensì un concetto utilizzato nel tentativo, storicamente ricorrente tra gli studiosi della finanza pubblica, di individuare l’ottimale ripartizione territoriale delle risorse ottenute attraverso l’imposizione fiscale” (Corte cost. n. 69 del 2016). Da ciò il Giudice delle leggi fa discendere che avuto riguardo alla struttura dell’ordinamento, della riscossione delle entrate tributarie ed a quella profondamente articolata dei soggetti pubblici e degli interventi dagli stessi realizzati sul territorio, “risulta estremamente controversa la possibilità di elaborare criteri convenzionali per specificare su base territoriale la relazione quantitativa tra prelievo fiscale e suo reimpiego”.
Ed infatti il c.d. “residuo fiscale”, anche a volerlo considerare rilevante ai fini dell’assetto delle competenze, si é ridotto drasticamente per la Sicilia passando da -2,419€ dal periodo 2000-2002 ai -0,995€ al periodo 2014-2016 e la tendenza é all’ulteriore ribasso, sicché oggi, anche mantenendo la progressione negativa degli ultimi anni deve ritenersi ulteriormente ridotto di almeno un terzo (quindi saremmo a poco più di 600 euro pro capite).
Peraltro tale dato non tiene conto né della perdurante inapplicazione di quanto previsto dall’art. 37 dello Statuto siciliano, in base al quale i rami d’azienda di imprese con sede fuori dalla Regione (in gran parte tra Milano, Roma) devono versare il gettito fiscale IRES maturato in Sicilia. Circostanza che modificherebbe significativamente i dati incrementando il residuo fiscale della Sicilia e diminuendo quello di altre Regioni (in particolare Lombardia, Veneto, Lazio etc.).
In senso analogo va poi sottolineato che alla Sicilia é dovuta la retrocessione, almeno parziale – pur in assenza di una previsione statutaria di attribuzione del gettito – di anche limitata parte delle accise maturate dalla raffinazione di prodotti petroliferi che generano gettito per lo Stato e per le Regioni ove vengono immessi sul mercato, mentre nulla lasciano alla Sicilia ove si raffina circa il 40% della produzione nazionale (oltre 8 me€ di gettito per lo Stato), ed alla quale restano solo i nefasti effetti ambientali.
Il secondo assunto (attraverso il presunto residuo fiscale si alimenterebbe la spesa improduttiva del Sud) è poi smentito dall’andamento della spesa per investimenti cha ha subito (ma questi dati li confermano sia la Banca d’Italia che l’ultimo rapporto della Commissione bicamerale sul federalismo fiscale), un drastico ridimensionamento in contrasto con i principi di coesione sanciti a livello costituzionale (art. 119, terzo e quanto comma, Cost.) e dal Trattato UE (art. 174-175). A questo segue il netto peggioramento della gran parte degli indici sulla dotazione infrastrutturale della Sicilia rispetto allo scorso decennio.
È evidente che in questo senso le misure di perequazione infrastrutturale sono state insufficienti e non hanno consentito di recuperare un divario inaccettabile, in violazione del principio di coesione. E tale divario in Sicilia è peraltro aggravato dalla condizione di insularità che non solo consente, ma impone allo Stato l’adozione di misure di riequilibrio strutturale.
Da ultimo, i dati presentati dimostrano che un altro degli stereotipi comunemente utilizzati per differenziare le aree del Paese ed in particolare adducendo l’esorbitante numero di impiegati della p.a. in Sicilia, appare sostanzialmente mutato. I dipendenti della p.a. di questa Regione risulta infatti allineato con quello statale (al 2016 in Italia 53,7 dipendenti ogni mille abitanti, in Sicilia 54), tali dati peraltro oggi devono ritenersi ormai equiparati in considerazione della drastica diminuzione dei dipendenti regionali nell’ultimo biennio.
Il negoziato aperto dalla Regione con lo Stato sull’autonomia finanziaria segna già un primo utile risultato con l’accordo sottoscritto il 22 dicembre 2018, occorre adesso che tale negoziato proceda, come quello delle altre speciali e l’adozione di congrue misure di perequazione e coesione previste dalla stessa normativa sul federalismo fiscale (l. n. 42 del 2009), in modo armonico e contestuale con l’iter delle istanze di differenziazioni delle Regioni italiane.
In conclusione, non sono in gioco il regionalismo differenziato e la “clausola di asimmetria” di cui all’art. 116, terzo comma della Costituzione, sopratutto se ne invocano l’applicazione le comunità regionali (Lombardia e Veneto con i referendum), ma la prospettazione che ne viene fatta come soluzione che impone il trasferimento di un numero assai elevato di competenze, nel contempo, sganciata dalla considerazione degli imprescindibili ed adeguati meccanismi di coesione e perequazione, e nel presupposto (non veritiero) che non vi sia questione di risorse finanziarie.
I siciliani, che hanno conquistato la prima Costituzione nel 1812 e l’hanno poi rivista in senso federale nel 1848, dopo aver segnato l’inizio di rivoluzioni che hanno percorso l’intera Europa, sino ad ottenere nel 1946 l’autonomia regionale speciale, non potranno che sostenere questo percorso, purché l’evoluzione dell’ordinamento sia accompagnata dal pieno riconoscimento delle competenze finanziarie della Sicilia, fulcro di un’autonomia che attraverso profonde riforme deve divenire ancor più responsabile ed efficiente, della condizione di insularità nonché dalle richiamate misure di riequilibrio e coesione.
(*) Gaetano Armao è vicepresidente della Regione siciliana, componente del Comitato delle Regioni UE e docente di contabilità pubblica nell’Università di Palermo