Mannino rivela: “Quella volta Rocco Chinnici mi chiese di eliminare Ciancimino”

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Mannino racconta la sua verità sulla storia della mafia e i rapporti con la politica. Dopo la sentenza di assoluzione in primo grado nel processo sulla presunta trattativa tra Stato e mafia, che ha dato un duro colpo alle tesi dei Pm, l’ex ministro democristiano ha rilanciato con le sue tesi sulla storia controversa dei rapporti tra cosa nostra e potere politico. E lo ha fatto con una intervista al quotidiano L’Unità nella quale rivela particolari inediti, anche rispetto al suo rapporto con la magistratura dell’epoca. 

“Voi della sinistra non avete mai capito che la Dc è sempre stata un argine a Cosa nostra. E la prima vittima. Voglio ricordare che fu la Dc a chiedere l’istituzione della commissione parlamentare antimafia, dopo la strage di Ciaculli” – ha attaccato subito Mannino prima di articolare il ragionamento ricco di particolari rivelatori del clima degli anni ’80-’90.

“Cominciamo dall’omicidio di Michele Reina, segretario provinciale della Dc di fede andreottiana. Era un personaggio che ritenevo discutibile, quindi quando lo uccisero, nel marzo del 1979, non feci la tradizionale visita alla famiglia. Quella sera, non l’ho mai raccontato finora, verso le 22.30 vennero a casa mia Piersanti Mattarella, moroteo, che un anno prima era diventato presidente della Regione con l’appoggio dei comunisti, anche perché Andreotti pensava di avere un debito morale verso Aldo Moro, che era appena stato rapito e perché voleva creare una sorta di parallelismo Roma-Palermo, e Rosario Nicoletti, segretario provinciale della Dc, che morirà suicida nel 1984. ‘Lillo, mi disse Mattarella, la situazione è grave, molto più di quanto tu possa immaginare’. Nicoletti che era molto agitato e esclamò: ‘Lillo, qua ci ammazzano a tutti e tre’. Eravamo i tre temerari che avevano proseguito l’esperienza morotea, dopo la morte di Moro”.

Nel suo excursus Calogero Mannino ha anche raccontato un episodio inedito sul giudice Rocco Chinnici, ucciso nel 1983. “Era il periodo in cui, a Palermo, dopo l’omicidio di Pio La Torre, arrivava, anche su mio impulso, il generale Dalla Chiesa. Un giorno Chinnici, che mi dava del tu mentre io gli davo del lei, viene a casa mia e mi fa: ‘Ma tu con Ciancimino che vuoi fare?’. Provo ancora adesso un brivido rammentando quel colloquio, ‘In che senso?’ gli risposi e lui in stretto dialetto: ‘Ciancimino l’ha fari fuora’, ed io di rincalzo: ‘Solo Ciancimino?’, e lui: ‘Ciancimino è dintra, è uno dei capi, l’autro è di fora’, ossia Salvo Lima”.

Mannino ha ricordato che “con me commissario della Dc, nel 1983, a Ciancimino non gli rinnovammo la tessera. Prima ancora, mentre a livello nazionale si era deciso di fare un listone unico per il congresso, io dissi che non l’avrei mai fatto con Ciancimino. Nicoletti cominciò a urlare: ‘così ti fai ammazzare’. Rino Nicolosi (presidente della Regione) e Sergio Mattarella furono invece d’accordo con me. Vede, io penso che Ciancimino fosse stato informato dei delitti Reina e Mattarella, fu lui a ordinare gli attentati contro due sindaci democristiani come Elsa Pucci e Nello Martellucci. Ciancimino era al centro dell’offensiva di cosa nostra contro la Dc e nessuno allora focalizzava il suo ruolo. Neppure Giovanni Falcone riuscì a inserirlo nel maxi-processo. Lima era uguale a Ciancimino – ricorda l’ex ministro democristiano -. Però a un certo punto aveva cominciato a prendere le distanze da Cosa Nostra perché aveva capito, come sosteneva anche il mio amico Leonardo Sciascia, che i corleonesi non volevano più obbedire alla ‘trattativa’ politica ma diventare i padroni della politica”.

Nella sostanza la ricostruzione di Mannino mostra un Vito Ciancimino organico alla mafia, anzi, regista occulto di alcune significative azioni criminali, e un Salvo Lima colluso, ma in un ruolo di subalternità rispetto al vertice di cosa nostra. Posizione che ne ha decretato la morte.