Mori e Obinu assolti dalla Cassazione. La Suprema Corte scrive la parola fine ad una vicenda che ha visto l’ex capo del Ros e del Sisde imputato eccellente nel processo sulla presunta trattativa tra Stato e mafia.
Ci sono voluti nove anni per arrivare ad una conclusione. Ce n’erano voluti cinque per il verdetto di primo grado che il 17 luglio 2013 aveva assolto, “perché il fatto non costituisce reato”, il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu dall’accusa di favoreggiamento aggravato dall’agevolazione di cosa nostra. Nel giugno del 2014 il via al procedimento di secondo grado che si è concluso il 19 maggio 2016, dopo tre giorni di camera di consiglio, con la conferma dell’assoluzione.
E oggi pomeriggio la Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dalla Procura generale di Palermo rendendo definitiva l’assoluzione in relazione alla mancata cattura del boss, Bernardo Provenzano, a Mezzojuso nell’ottobre 1995. Restano alcuni nodi da chiarire. Un percorso processuale complesso iniziato il 18 giugno 2008: il Gip impose un procedimento che all’inizio la procura non voleva celebrare e che poi è diventato quasi fatalmente la premessa di quello in corso sulla presunta trattativa Stato-mafia, nel quale Mori è imputato.
L’assoluzione di primo grado ne fece vacillare una delle architravi. E nel processo d’appello il Pg aveva infine escluso le aggravanti della trattativa e della mafia. Oggi c’è chi parla di un nuovo colpo assestato alle tesi del Pm Nino Di Matteo. Mori, ex capo del Ros ed ex direttore del Servizio segreto civile, e Obinu erano accusati del mancato blitz di Mezzojuso: per la Dda si sarebbe potuto catturare Provenzano già il 31 ottobre 1995, piazzando un micidiale uno-due a cosa nostra dopo l’arresto un paio d’anni prima di Riina. Mori era già stato processato – e assolto nel 2006 – sul caso del covo di Riina, non perquisito per 18 giorni dopo la cattura il 15 gennaio 1993.
“Non può che ritenersi priva di ogni riscontro e perfino contraddetta da inoppugnabili dati di fatto l’affermazione di Massimo Ciancimino, secondo cui, grazie all’accordo concluso con esponenti delle istituzioni, il boss Bernardo Provenzano era al sicuro da ogni ricerca e si muoveva liberamente” – scrivevano nella corposa motivazione della sentenza di primo grado i giudici.
Il collegio criticava Mori e l’altro imputato per le “scelte operative discutibili adottate nel tempo, astrattamente idonee a compromettere il buon esito di una operazione che avrebbe potuto procurare la cattura di Provenzano”, ma non ci fu alcun accordo tra Stato e mafia, dietro la prosecuzione della latitanza di “Binnu”: anche se “non mancano aspetti che sono rimasti opachi”, “la compiuta disamina delle risultanze processuali non ha consentito di ritenere adeguatamente provato che le scelte operative, giuste o errate, siano state dettate dalla deliberata volontà degli imputati di salvaguardare la latitanza di Provenzano”.
In quel processo il procuratore generale Roberto Scarpinato diceva: “Intendiamo dimostrare che Mori anche dopo la sua formale fuoriuscita dai servizi segreti, ha sempre mantenuto il modus operandi tipico di un appartenente a strutture segrete perseguendo finalità occulte, non dettate giuridicamente dallo Stato, in quanto non supportate da procedure legalitarie di accertamenti istituzionali”.
Secondo Scarpinato, Mori ha “sistematicamente disatteso il dovere istituzionale di attenersi a determinate norme e i doveri di lealtà istituzionale nei confronti della magistratura, traendo in inganno i magistrati anche mediante omessa comunicazione di avvenimenti”. Comportamenti “opachi tra gli apparati investigativi del Ros e il generale Mario Mori, intrecciati con gli eventi eversivi che caratterizzarono il periodo delle stragi”.
Già all’indomani degli attentati del ’93 autorevolissime fonti investigative “avevano evidenziato che tali fatti erano finalizzati per costringere lo Stato a trattare con cosa nostra”. Un quadro drammatico per la vita della Repubblica rispetto al quale, è la tesi della procura generale, Mori non fece nulla nell’ambito di una “convergenza di interessi occulti”.
Per Scarpinato, Mori, pur essendo venuto a conoscenza “da fonti qualificate di taluni aspetti di tale complessa strategia della tensione, non solo non ha svolto alcuna attività investigativa ma neppure si è attivato per allertare le istituzioni”.
“Le interlocuzioni tra Vito Ciancimino e gli ufficiali del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno erano pericolose, sono sfuggite al controllo della magistratura”, affermava il sostituto procuratore generale Luigi Patronaggio il 21 ottobre 2015 iniziando la requisitoria. Secondo l’accusa i carabinieri nel 1992 avviarono contatti e incontri “in gran segreto” con Vito Ciancimino per tentare di mettere un freno alla strategia stragista di cosa nostra. “Vito Ciancimino disse sì – ha ricostruito Patronaggio – ma ci volevano coperture istituzionali”. Di questa strategia, però, i carabinieri e Mario Mori non informarono l’autorità giudiziaria.
Mario Mori “ha gravemente mancato ai propri doveri istituzionali di ufficiale di Polizia giudiziaria”, ha sostenuto Patronaggio, “non è importante il motivo per cui lo hanno fatto: è certo però che sono colpevoli”. Ha elencato i possibili moventi che avrebbero spinto Mori e Obinu a tradire lo Stato. Una delle ragioni starebbe nella cosiddetta trattativa Stato-mafia”, ma “vi potrebbe essere anche l’appartenenza di Mori a servizi segreti deviati e la sua vicinanza a partiti politici di centrodestra. Quel che è certo è che il reato è stato commesso”.
Al termine della sua requisitoria, il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato aveva chiesto di 4 anni e 6 mesi per il generale dei carabinieri del Ros Mario Mori, e 3 anni e 6 mesi per il coimputato, il colonnello Mauro Obinu. Molto meno dunque della proposta avanzata in primo grado di 9 anni per l’ex capo dei servizi segreti, con l’esclusione delle aggravanti di avere agito per commettere i reati connessi alla cosiddetta trattativa Stato-mafia e di avere agito per agevolare cosa nostra. Rimaneva invece l’aggravante di avere commesso il reato nella qualità di pubblico ufficiale.
Secondo i Pm di primo grado, Antonio Ingroia e Nino Di Matteo, Provenzano sarebbe stato lasciato libero in virtù di un patto risalente a due anni prima, quando lo stesso boss avrebbe agevolato la cattura di Totò Riina, nell’ambito del complesso meccanismo della trattativa, diretto a far sì che la mafia rinunciasse all’attacco violento con le bombe a uomini dello Stato, già colpiti con le stragi di Capaci e via d’Amelio.
La Procura generale sostiene, invece, che non è chiaro né conta il motivo per cui Mori e Obinu sarebbero stati “scandalosamente inerti”, tracciando una linea retta fra tre episodi apparentemente slegati fra di loro, ma che vedono come unico elemento comune la presenza del Ros: la mancata perquisizione del covo di Totò Riina. Due e mesi mezzo dopo, ad aprile del 1993, la mancata cattura del boss catanese Nitto Santapaola, resa impossibile da una sparatoria provocata dagli uomini del Ros a Terme Vigliatore (Messina).
E infine il mancato blitz contro Bernardo Provenzano, a Mezzojuso. Tutto potrebbe essere messo in relazione, sostiene Scarpinato, alla “costante deviazione dai doveri istituzionali e dalle procedure di legge e del codice”, posta in essere, nel corso della sua lunga carriera, da Mario Mori. Secondo il Pg, ben prima di prendere il comando del Sisde, di cui fu direttore nello scorso decennio, sarebbe stato legato ai servizi e avrebbe “sempre assecondato interessi extra istituzionali, deviando dalle regole”, una “costante deviazione dai doveri istituzionali e dalle procedure”.