Il sole a Sant’Ambrogio stava sorgendo spingendo la luna a cercarsi un giaciglio per riposarsi: d’altronde il suo turno l’aveva ampiamente e luminosamente compiuto. I primi passerotti erano da circa un’ora già svegli e allegramente cinguettavano sui tetti rossi delle case. Anche il “signore” del pollaio, il gallo cedrone della zia Maria Quartararo – vedova dopo appena due giorni di matrimonio – aveva di buon’ora dato la sveglia a tutto il vicinato com’era solito fare ogni mattina provocando puntualmente l’ira di mastro Guglielmo, l’ultimo falegname del paese.
Il Geppetto di Sant’Ambrogio era solito, una settimana sì e una no, lavorare in bottega fino a tarda notte, quindi la mattina se la prendeva comoda: restava, infatti, a dormire fino alle nove o giù di lì, “sveglia” di zia Maria permettendo.
Poco dopo i sei rintocchi dell’orologio posto in cima al bizantino campanile della Matrice iniziava la quotidiana battaglia: da una parte mastro Guglielmo con le sue urla e le imprecazioni, dall’altra il canto imperterrito del gallo di casa Quartararo.
E le bestemmie del falegname alle volte, oltre ad essere rivolte all’impettito pennuto erano indirizzate volutamente, come frecce appuntite e avvelenate anche alla zia Maria, la sua padrona.
Erano urla ed invettive che scuotevano quotidianamente la quiete dell’intero caseggiato.
«Un giorno o l’altro finirai arrosto e la tua padrona poi può cantare!» urlava a squarciagola mastro Guglielmo.
E ancora: «Non é possibile, non né assolutamente comprensibile vivere con questa lagna al capezzale. Cosa ho fatto di male per meritarmi un così insopportabile concerto mattutino? Ho un piano per sbarazzarmi una volta per tutte di quel lurido pollo».
E la zia Maria, affacciandosi ancora in camicia da notte sul davanzale del balcone ricamato di gerani e pansè controbatteva alle urla di mastro Guglielmo.
«Povero diavolo. Stolto di un casciamortaro, ti lamenti senza alcun motivo valido con il mio gallo, ma se non ti ha fatto nulla, perché allora ogni mattina urli contro il suo canto libero? Lascialo e lasciami in santa pace. E ricordati che quando parli con me devi sempre sciacquarti prima la bocca. Guai a te. Un giorno di questi, se mi sveglio con la luna storta sono capace di andare dai carabinieri e denunciarti per molestie alla quiete pubblica. Intesi? Sono stata chiara? E non voglio più ripeterlo!».
E mastro Guglielmo per niente impaurito ascoltando dal davanzale della sua bottega ribatteva colpo su colpo.
«Aha!…Aha!…Aha!… Mi faccio una bella risata alla tua facciazza. Per tutto quello che mi hai poc’anzi detto. Cosa? Mi denunci per molestie alla quiete pubblica? Mi condanni per aver detto la verità? E il tuo cappone invece a cosa dev’essere condannato? Il minimo che gli possa capitare é di finire arrosto entro sera o di essere lesso con tutte le penne e naturalmente vivo. Certo una fine più orrenda rispetto ad essere conciato per lo spiedo. Allora donna, non rompere più le “balle” con le tue provocazioni, stai zitta e invece di andare dai carabinieri a fare la spia, occupati del tuo lavoro, fai quello che vuoi, ma non devi più disturbarmi. Intesi?».
E ogni mattina dopo le urla ed i battibecchi si finiva per fare tregua, anche se in maniera provvisoria.
Erano intanto trascorse da poco le sei e trequarti quando per strada si sentiva in lontananza il solito ticchettio dei tacchi a spillo di Gianna, in arte Vanna, l’attraente figlia della signora Rosa, quella del vicolo Pernice, che di notte lavora vendendo il suo corpo tra le viuzze di Corso Ruggero a Cefalù e di giorno naturalmente dorme fino a tardi. Per Vanna il giorno era la notte e viceversa.
Nel piccolo borgo intanto le luci della notte, agli angoli delle strette strade, si erano già spente. Gli artigiani erano ai loro posti di lavoro nelle botteghe: il maniscalco preparava nuove scarpe per i muli; il bottaio costruiva tini che sarebbero serviti per conservare i vini; il calzolaio, lesina alla mano, risuolava un paio di scarpe vecchie.
A Sant’Ambrogio, insomma era tutto un concerto di mestieri. Tutti erano al loro posto di lavoro. Nessuno in questo piccolo paese stava ad oziare, ad eccezione di uno solo, che ogni mattina se la prendeva tanto comoda.
«Luigi, sveglia é già ora di andare. Sveglia, é tardi devi essere sul posto di lavoro. Sveglia, dai Luì…».
Così ogni mattina la signora Arcangela, anch’essa vedova come la zia Maria – il marito l’aveva perso nella tragedia di Cozzo Finale, nel ‘63 – chiamava l’unico figlio che doveva andare di buon’ora a mungere le pecore e puntualmente il giovane, che amava giocare a carte con gli amici al circolo degli “schietti” fino a tarda notte, cercava ogni scusa per prendersela comoda.
L’orologio della Matrice rintoccava intanto le otto, tutto il paese era in movimento.
«Comprate il sale, cinque pacchi di sale mille lire. Sale fino, sale bianco, se mi cerchi non ti pianto. Comprate il sale, cinque pacchi di sale mille lire… Quando mi cercate non mi trovate». Gridava l’ambulante all’angolo della piazza.
«Calze per uomo e per donnaaa… Mutande per donna e per uomooo… Reggipetti per uomo e per donnaaaa…». Rispondeva all’altro angolo il venditore di “intimo” annunciando la sua presenza sulla scena con un suono di trombetta.
E le massaie a frotte erano già per strada a contrattare per gli acquisti.
E il gallo della zia Maria?
Sì, proprio lui il “signore” del pollaio, ormai aveva ampiamente compiuto il suo lavoro di sveglia mattutina e adesso stava tranquillo a razzolare tra le bianche cosce delle galline dell’aia di donna Concetta, sue “pulzelle” preferite.
L’ora “esatta” sarebbe scattata l’indomani mattina. Stesso cortile, stessa ora, scatenando sempre l’ira di mastro Guglielmo.