IL RACCONTO – La paziente della stanza numero otto

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Il letto numero tre della stanza numero otto è vuoto. Le infermiere si affrettano a riordinarlo. Una paziente è seduta su una sedia lungo il corridoio, a quell’ora animato dalle visite dei medici. Da tre ore sta in attesa di occupare l’umile giaciglio. Il personale para-sanitario non ha avuto il tempo di cambiare nemmeno il materasso né di disinfettare il letto.

Da quando Erminia è stata dimessa altre donne hanno usufruito del letto da lei occupato. Molte di loro hanno intrapreso la strada di casa, altre invece quella della squallida camera mortuaria. La mattina, se mi capita d’entrare nella stanza, non posso fare a meno di pensare a lei.

Il suo ricordo è vivo in me ed è un tormento che non mi dà pace. Ho avuto modo di conoscere Erminia la primavera scorsa, una notte in cui ero di turno in ospedale. Fui svegliato da un’infermiera che bussò alla mia porta.

«Dottore Cabianca, c’è un nuovo ricovero» sibilò una voce femminile.

«Vengo subito» risposi. A fatica mi alzai da letto. L’orologio sul comodino segnava le tre. I corridoi a quell’ora erano appena illuminati da luci fredde notturne di colore azzurro. Entrai nella stanza delle osservazioni brevi, accanto all’area di emergenza. Una donna, semi incosciente sdraiata sul lettino. Due infermiere le stavano accanto. Una mi consegnò il foglio di ricovero redatto poco prima dal collega del pronto soccorso.

La diagnosi: avvelenamento da barbiturici. Il referto comprendeva l’elenco dei provvedimenti terapeutici. La lavanda gastrica aveva in parte risolto gli effetti dell’overdose di farmaci. Il mio compito fu di monitorare il decorso post-intervento augurandomi che non insorgessero, come capita in questi casi, improvvise complicanze. Afferrai il polso sinistro della donna e andai alla ricerca della frequenza cardiaca

Il ritmo era bradicardico. Le pulsazioni al di sotto di 60. Presi quindi lo sfigmomanometro le passai la fascia attorno al braccio sinistro. Diedi alcuni colpi alla pompa lasciando che la colonnina scendesse lentamente. La pressione massima 85, la minima 50. Dissi ad una delle infermiere che mi assisteva di applicare subito in vena una fisiologica da 500 cc. ed eseguire immediatamente, senza perdere altro tempo anche un elettrocardiogramma. Il colorito del viso della donna era di un pallido disarmante, ma non tale da preoccuparmi.

Lo studio della semiologia mi aveva insegnato che in casi come questo era normale che la paziente presentasse quel colorito della cute. La donna sembrava avere una trentina di anni o poco più. Il viso, privo di trucco, le conferiva un’aria angelica. I capelli di colore castano erano intercalati da striature chiare. Indossava una raffinata vestaglia da camera in seta che la copriva fino giù ai piedi.

Una delle infermiere ripose l’elettrocardiografo a fianco del lettino. Allontanò i lembi della vestaglia e le tolse il reggiseno. Le tette erano vistose. In altre occasioni le avrei definite in modo diverso, tanto erano perfette nelle loro forme. I capezzoli, di colore roseo chiaro avevano una forma estesa. Le punte stranamente turgide. L’infermiera dispose gli elettrodi sulla parete toracica di sinistra fino ad arrivare al cavo ascellare. Il pennino dell’elettrocardiografo prese a muoversi. Il tracciato risultava normale. Non c’era, per fortuna, alcuna traccia di alterazione cardiaca.

«Va bene, dai, mettiamola a letto. Domani mattina eseguire tutti i prelevi di sangue, quelli di routine» dissi.

«Controllate piuttosto che i parenti siano stati avvisati. Se nessuno l’ha fatto, informate il posto di polizia, ci penseranno loro a contattarli».

Uscii dalla stanza dell’osservazione e tornai in camera mia. Durante la notte restai a controllare le cartelle cliniche, fumando nervosamente un paio di Muratti fino a quando attraverso la finestra del quinto piano non vidi albeggiare sui tetti delle antiche case che si affacciano sul piazzale antistante l’ospedale.

Mi preparai per chiudere il mio turno e dopo essermi cambiato, lasciai la corsia. Sarei tornato in reparto, soltanto nel tardo pomeriggio. A quell’ora ero solito esaminare i referti degli esami ematici e di radiologia eseguiti alla mattina.

L’ultima stanza, la numero 8 che visitai era occupata da due letti uno dei quali era libero. L’altro ospitava la paziente che la notte precedente avevo soccorso al suo ricovero. Presi la cartella clinica e diedi un’occhiata ai referti degli esami.

«Come si sente signora Di Bartolo? Lo sa che ha rischiato seriamene di lasciarci la pelle?».

Pronunciai queste parole con l’indifferenza di chi da troppo tempo è abituato a convivere con la sofferenza ed il dolore.

«Sto meglio. Molto meglio» rispose la paziente. Il viso, pur pallido, non aveva il colorito spento della notte precedente. La pressione arteriosa ed il polso avevano ripreso i valori normali. Stava semi sdraiata sul letto, indifesa e forse sconcertata dalla singolare situazione in cui era venuta a trovarsi. I lineamenti del viso erano fini. Il modo di porsi e di comunicare quelli di una donna erudita. Diedi un’occhiata alla cartella clinica e notai che là dove è indicata la professione c’era scritto insegnante.

«Allora lei insegna» dissi spezzando l’alone d’imbarazzo che si era instaurato fra noi.

«Si, da circa vent’anni al liceo classico “Ugo Foscolo”. Insegno storia e filosofia».

«Ah… Bene. Da ragazzo avrei desiderato frequentare quel liceo. Purtroppo i miei genitori preferirono iscrivermi al magistrale. Ed ora eccomi qui a fare il medico».

E sorridendo aggiunsi: «Oggi tutti i miei colleghi mi considerano il “maestro della sanità”…».

Contagiata dal mio modo di fare si lasciò sfuggire un timido sorriso. In quell’attimo fugace colsi nei suoi occhi grigioverdi una certa luce.

«Beh… Ora la lascio riposare, ci vediamo domani mattina. Avrò più tempo da dedicarle. Compileremo con tranquillità la cartella clinica».

Abbandonai la stanza seguito a breve distanza dall’infermiera alla quale impartii alcune indicazioni per la somministrazione della terapia per gli altri pazienti ricoverati.

«Domani mattina – rivolgendomi alla caposala – esegua i test per l’epatite e quelli per l’Aids. Gli esami ematici evidenziano un rialzo delle transaminasi».

Forse quei valori celavano qualche infezione di tipo virale provocato dall’assunzione esagerata dei barbiturici.

Occupai il resto della giornata a lavorare nel mio studio preparando una relazione da presentare ad un congresso, che da lì a poco si sarebbe tenuto a Taormina. Verso sera lasciai l’ospedale e feci ritorno a casa. Il giorno dopo, come promesso, mi recai dalla paziente per redigere la storia clinica. Il suo aspetto era notevolmente migliorato. Sul viso notai un lieve cenno di trucco, segno evidente di un ritorno quasi alla normalità.

«Come sta oggi la mia malata?».

«Bene dottore Cabianca. Il momento brutto è passato».

Mi accomodai su di una sedia accanto al letto e aprii la cartella clinica.

«Le porrò alcune domande molto personali che potrebbero sembrarle inopportune ed imbarazzanti, allo stesso tempo, ma non posso esimermi dal farle. Innanzi tutto vorrei chiederle cosa è successo».

La donna abbassò le ciglia e intrecciò le dita delle mani con forza, poi iniziò a parlare con la voce spezzata dall’emozione.

«Ho scoperto che il mio compagno mi tradiva con la mia migliore amica. Come se ciò non bastasse lo faceva sotto il nostro stesso tetto. Succedeva tutte le volte in cui mi assentavo per recarmi a trovare mia madre che abita fuori città, in provincia. Il caso ha voluto che, l’altro giorno, mi sia recata in stazione per prendere il treno, ma uno sciopero improvviso dei macchinisti me lo impedì. Sono tornata a casa in anticipo e in camera da letto sa chi ho sorpreso? Quel bastardo e farabutto faceva l’amore, sul nostro letto, con Alessandra, la mia collega d’istituto che insegna educazione fisica».

Erminia si prese una breve pausa, il tempo di asciugarsi con un fazzoletto di carta le lacrime che scendevono copiose dal suo viso e poi proseguì il suo racconto.

«Il nostro rapporto era già deteriorato. C’erano stati dei segni premonitori che in qualche modo avrebbero dovuto farmi intuire ciò che stava succedendo. Ma noi donne siamo ingenue, anche di fronte all’evidenza sappiamo giustificare le peggiori bugie dei nostri uomini. Quello che ho visto nella mia camera da letto è stato un brusco risveglio. Ho reagito in maniera dissennata. Ero furibonda, fuori di me. Prima ho urlato ed inveito contro i due squallidi amanti e poi per la rabbia ho incominciato, dopo avere aperto la cassetta delle medicine riposte in un armadietto del bagno di servizio, ad ingoiare una dietro l’altra un intero flacone di barbiturici. La mia storia è tutta qui. Dottore, ora lei sa per filo e per segno quello che è accaduto».

Rimasi in silenzio per tutto il tempo senza interromperla. Le sue parole mi avevano fatto rivivere la mia storia con Silvia, del tutto simile alla sua, con la sola differenza che allora fui io a scoprire mia moglie nuda, cavalcioni sul nostro vicino di casa che la possedeva. Naturalmente non le confidai questi pensieri. Non volevo che le mie questioni personali entrassero in conflitto col lavoro.

Iniziai a provare una certa simpatia per quella donna. Quasi senza accorgermene appoggiai una mano sulla sua nuca e l’accarezzai.

«Non si preoccupi, per sua fortuna è tutto felicemente finito. E’ fuori pericolo» la rassicurai.

«Non commetta lo stesso errore, torni a vivere con la determinazione di chi ha ancora tanto da gioire».

Dissi queste parole con una tale enfasi che senza accorgermene iniziai a stringerle forte la mano, sulla quale era applicato un cerotto con uno di quei cateteri per i prelievi.

«Spero, dottore Cabianca, di non averle provocato dei disturbi ormonali» m’interruppe sorridendo.

Probabilmente mi ero spinto ben al di là delle mie competenze mediche. Quella battuta mi fece scoprire un lato nascosto di quella donna all’apparenza sobria ed affabile, ma anche capace di tanta ironia. Proseguii nel redigere la cartella clinica annotando la storia delle sue malattie e di quelle dei genitori. Le analisi di funzionalità epatica e la ricerca di eventuali virus diedero fortunatamente esito negativo.

Decisi che dopo la consulenza di uno specialista neurologo l’avrei dimessa. Non mi restava che attendere alcuni giorni, verificare che non insorgessero, d’improvviso, altre complicazioni. Il nostro rapporto diventò amichevole. Mi confidò che il compagno era venuto a trovarla e che, di comune accordo, avevano deciso di separarsi. Clinicamente era guarita, ma ero dispiaciuto perché non l’avrei più rivista.

Mi convinsi che Erminia, tutto sommato era una donna abbastanza vitale, simpatica, intelligente e ricca di una forte personalità. Probabilmente in un momento di difficoltà, di sconforto, era crollata inesorabilmente, correndo il rischio di togliersi, addirittura la vita.

«Domani mattina firmerò le sue dimissioni» dissi entrando nella sua stanza.

«Questa notte durante il mio turno di guardia le preparerò la lettera di dimissioni. Una volta a casa dovrà consegnarla al suo medico di famiglia che proseguirà con il protocollo terapeutico. Mi raccomando, lo segua alla lettera che nel giro di due-tre settimane, di questa dolorosa avventura, rimarrà soltanto il brutto ricordo”.

La sera cenai nella mia stanza, quella accanto alla medicheria. Uno degli ausiliari del reparto mi portò mezzo pollo allo spiedo con contorno di patate al forno. Stavo seduto a consumare la cena e allo stesso tempo a leggere delle cartelle cliniche, sorseggiando mezzo bicchiere di Nero d’Avola del 2000, ricevuto in regalo da un paziente della provincia di Ragusa, quando sentii bussare alla porta.

«Posso entrare?»

La voce era femminile, dedussi che fosse la signora Bevilacqua, una delle infermiere, quel giorno di turno.

«Avanti. Entri pure» dissi.

Ma con mia sorpresa sulla soglia apparve Erminia. Indossava una vestaglia aperta sul davanti con sotto la camiciola di seta trasparente che lasciava intravedere la pelle nuda.

«Dottore mi scusi, sono venuta a salutarla. Domani non avrò forse occasione di vederla. Voglio ringraziarla per tutto ciò che ha fatto per me. Non so come fare per disobbligarmi».

«Non si preoccupi, è il mio lavoro. Sono pagato per fare questo».

«Non è vero, lei ha fatto molto di più di quanto le competeva» rispose.

E mentre diceva queste parole il suo sguardo si era fatto più seducente. In qualche modo vedevo in lei la mia Silvia.

Preso da un raptus e lusingato dalle sue attenzioni mi alzai dalla poltroncina. Le cinsi la vita, l’attirai a me e la baciai.

«Stiamo entrando in acque molto agitate» disse dopo che mi distaccai dalle sue labbra.

«Lo so» risposi.

«Sono felice quando posso stare dove voglio».

«E lei è felice ora?».

«Si, lo sono».

La vestaglia che ricopriva il corpo cadde ai suoi piedi. Le sue forme che già avevo intravisto la sera del ricovero si manifestarono nella loro naturale bellezza. Le accarezzai il viso più volte scostandole i capelli che tornavano a coprirle le guance. Gli occhi iniziarono a brillare con una certa intensità, fino a quando una lacrima le scese lungo la guancia.

La strinsi forte al petto carezzandole il capo. Lei, a sua volta, cinse le mani sulla mia schiena e si aggrappò a me, poi iniziò a piangere a singhiozzo. Per la prima volta, dopo quei giorni trascorsi in ospedale, stava liberandosi del peso che si portava dentro.

«Scusami», disse e sussurrando a voce bassa mentre sollevava il capo mettendo in evidenza l’angoscia di cui era prigioniera.

«Non ti preoccupare, ci sono io vicino a te» risposi.

Presi il viso fra le mani e l’accarezzai, poi la baciai ancora una volta sulle labbra. Il sapore salato delle gocce di pianto si mescolò al gusto mielato della sua bocca. La situazione suscitò in me un naturale sentimento di tenerezza.

Dopo lo sfogo di pianto si strinse ancora più a me. Le nostre labbra si congiunsero in un bacio appassionato, sensuale. Ho sempre misurato l’intensità di una passione in rapporto al piacere che sa trasmettermi un bacio.

Quella sera, forse per colpa della strana circostanza, rimasi estasiato dal calore delle sue labbra. Ci abbracciammo per alcuni istanti come si conviene a due amanti. Uno squillo del telefono interruppe il nostro idillio. Allungai la mano verso la scrivania e afferrai la cornetta del telefono.

«Dottore Cabianca, è arrivato un ricovero» disse l’infermiere di turno.

«Arrivo, arrivo immediatamente. Intanto trasferite la paziente in ambulatorio».

Ci separammo in tutta fretta.

«Mi ha fatto piacere stare con te» disse Erminia.

«Anche a me» risposi.

«Una volta che sarò dimessa spero di risentirti. Ci conto».

«Si, certo» promisi.

«Sarò io a cercarti. Ho bisogno di tempo, devo mettere ordine nella mia vita».

Le diedi un ultimo bacio e mi allontanai. Dovevo raggiungere la corsia per un’altra emergenza.

Trascorsero alcune settimane senza che si facesse sentire. Decisi di telefonarle, trasgredendo la promessa che le avevo fatto di non cercarla. Provai parecchie volte, ma al suo cellulare non rispondeva mai nessuno. Era, inesorabilmente sempre spento.

Una sera provai a chiamarla a casa ed una voce rispose all’altro capo del filo. «Buona sera, desidera?».

«Ciao, Erminia, non mi riconosci? Sono Davide Cabianca, come stai?».

«Scusi, non sono Erminia. Lei è il dottore Cabianca, vero? Sono la mamma di Erminia. Mia figlia, la mia bambina non c’è più… E’ venuta a mancare. Povera figlia mia…».

Erminia si era tolta la vita il 20 gennaio gettandosi dal balcone della sua casa pochi giorni dopo essere stata dimessa dall’ospedale.

La cronaca locale le dedicò appena una notizia breve in fondo alla pagina: “SUICIDIO. SI LANCIA DAL BALCONE DI CASA. DONNA MUORE A 38 ANNI. IGNOTI I MOTIVI DELL’INSANO GESTO. INDAGANO I CARABINIERI DELLA TERRITORIALE”.