L’uccisione di Qassem Soleimani è un messaggio di Washington a nemici e alleati

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L’uccisione da parte statunitense del comandante iraniano Qassem Soleimani ha destato reazioni diverse, ma tutte improntate allo stupore. Sorpresa e interrogativi nascono dalla difficoltà di trovare un filo logico in questa azione condotta contro un militare regolare delle forze armate di un Paese sovrano anche se governato da un regime teocratico intollerante e detestabile.

Soleimani non era al-Baghdadi o Osama bin Laden, era un carismatico comandante che aveva condotto i suoi uomini in tante battaglie fin dalla guerra Iran-Iraq e che appena un paio di anni fa aveva guidato i suoi pasdaran schierati al fianco delle truppe irachene, curde e persino dei soldati della “odiata” Nato nell’offensiva contro l’Isis che portò alla liberazione di Mosul.

Provando a ragionare con le categorie della politica estera, che non contemplano per definizione considerazioni di carattere morale o umanitario, ed escludendo che Trump, con tutte le sue bizzarre e opinabili uscite, non sia “compus sui”, è verosimile che l’attacco del drone Usa a Qassem Soleimani sia stato organizzato per dare un segnale a molti attori vecchi e nuovi sulla scena mediorientale.

L’Iran degli ayatollah sciiti, dopo una fase nella quale sembrava far prevalere la diplomazia rispetto alla volontà di potenza nella regione, ha da tempo assunto un atteggiamento più aggressivo con i rivali storici sunniti. Arabia Saudita e paesi del Golfo Persico in primis.

L’attentato alla petroliera nel porto di Gedda, le azioni analoghe nel golfo dell’Oman, la presenza di truppe e consiglieri militari iraniani in tutti i teatri di guerra dell’area, a cominciare dallo Yemen, le minacce costanti ad Israele ed in ultimo, l’assalto della scorsa settimana all’ambasciata Usa di Baghdad, per fortuna senza gravi conseguenze, sono gli esempi più evidenti. Una escalation rispetto alla quale gli Usa hanno voluto mettere un punto. E in maniera molto plateale. Perché?

Innanzitutto per dire in maniera inequivocabile a Teheran che non può andare oltre. Poi per dire a Sauditi e Israeliani che possono contare sempre sull’alleanza strategica con Washington e nel contempo  avvertire Putin che nonostante il dinamismo politico russo in Medio Oriente, con la presenza di Mosca in Siria e in Nord Africa, la potenza militare statunitense ha il predominio tattico e strategico nell’area. Una condizione che ha  conseguenziali risvolti politici e diplomatici, infine probabilmente, il raid di Baghdad è servito a mandare un messaggio trasversale a Cina e Corea del Nord che agli iraniani continuano a fornire armi e tecnologie.

Politica e diplomazia non possono prescindere dalla forza militare e questo gli Stati Uniti lo sanno bene. La feluca dell’ambasciatore non vale nulla senza la spada del soldato. Concetto semplice che non hanno mai capito i pacifisti italiani ed europei, acritici nemici di ogni strumento di difesa.

Nemmeno l’Europa o il governo italiano hanno compreso che non si può sperare nella pace se non si è capaci di stare, credibilmente, in zone di potenziale conflitto. Le enunciazioni di principio valgono meno di zero. Roma e Bruxelles si stanno mostrando in tutta la loro inadeguatezza, pigmei politici  incapaci di articolare qualsivoglia forma di iniziativa seria e credibile sull’Iran così come sulla Libia, dove l’ambizioso Erdogan schiera le sue truppe.

Cosa accadrà è impossibile prevederlo, gli assetti mondiali sono in rapida e profonda trasformazione e tutto accade  in un momento nel quale le classi dirigenti europee, a differenza di quella americana, russa e cinese, mostrano di non avere una chiara visione geopolitica.